sabato 5 febbraio 2022

Sesso

Si. Proprio quella parola lì. Ecco.
Perché se ne fa sempre di meno, come dimostrano i numeri sulla natalità di un paese tra i più vecchi al mondo, dove in compenso stupri e molestie sembrano non faticare a trovare attori adeguati.

Lo scorso anno mi è capitato di leggere un libro di Edoardo Lombardi Vallauri “Ancora bigotti”. Libro argomentativo e ironico, nello stile dell’autore, che ho trovato a tratti assolutamente condivisibile, a tratti decisamente forzato e irritante. Certo, argomentare e riflettere non sono sinonimi, tuttavia un saggio di taglio sociologico può anche scoprirsi fragile se alla visione si sostituisce il punto di vista. 

Di Vallauri possiedo un paio di testi di linguistica divorati con attenzione, lo apprezzo molto e anche questo testo è stimolante e assolutamente da leggere. Per questo mi scuso per la sintesi riduttiva che segue. Dopo un’iniziale analisi socio-linguistica di stereotipi e pregiudizi radicati nella nostra società, nonché veri e propri tabù, che ci vietano di affrontare direttamente argomenti della sfera sessuale, nonostante la sua assoluta naturalità, l’autore, con un singolare sillogismo, passa dall’esaltazione della sessualità come naturale e sacra espressione dell’individuo, pulsione innata e veicolo di appagamento e felicità, alla condanna della monogamia e della fedeltà come crudele e innaturale limitazione, che rende irrimediabilmente infelici.

Ovviamente sono portatrice di un punto di vista non proprio coincidente con quello di Vallauri, ma senza voler argomentare su un tema magico come la felicità né spacciare ricette o peggio trasformare il mio punto di vista in una tesi universale e, in assenza di statistiche sull’effettiva felicità procurata dalla quantità e varietà di partner sessuali rispetto alla loro qualità, mi piacerebbe condividere alcune riflessioni sull’argomento.

Partiamo dai dogmi. L’evoluzionismo, l’assoluta naturalità dell’atto sessuale e la sua piena legittimità fra adulti consenzienti. Dopo la lettura di “Ancora bigotti”, non mi sono rifugiata scandalizzata nell’Antico Testamento, ma ho fatto un ripasso sull’evoluzionismo con Richard Dawkins e “Il più grande spettacolo della terra”. Tra le informazioni interessanti che riporta il libro di Dawkins ci sono le percentuali di americani creazionisti che non credono all’evoluzionismo. Quello sì mi ha scioccata abbastanza. Poi giorni fa ho letto la percentuale di italiani che ritiene che la terra sia piatta e mi sono accorta che ormai non mi sciocca più niente, figurarsi il sesso di Vallauri. Comunque mi pareva giusto stabilire prima le coordinate perché l’evoluzionismo ovviamente non è in discussione mai nella mia riflessione.

Come la natura pone le condizioni perché le specie siano stimolate a selezionare caratteri funzionali alla loro sopravvivenza e riproduzione è indubbio che l’ambiente incide nel suo complesso in certi processi e un ambiente antropizzato e dominato dalla tecnica incide necessariamente anche su istinti atavici e innati come il desiderio sessuale e la spinta riproduttiva, ma, soprattutto, incide sull’effettiva o auspicata “ricerca della felicità”. I cavernicoli non avevano netflix e nemmeno il campionato, sicuramente non c’era la partita di calcetto, la pizza o l’aperitivo, non c’era il teatro, l’opera e nemmeno il pub, soprattutto non c’erano instagram e facebook. Diciamo che non c’era gara. Quando vediamo una coppia al ristorante che siede silenziosa ciascuno guardando il proprio smartphone, nessuno si aspetta che pagato il conto si infilino nel primo portone per fare sesso.

 Qualche giorno fa il giornale riportava il caso di un’azienda che, non vendendo più preservativi, ha riconvertito la produzione in guanti di lattice. Pare che molte persone attive sui social e nelle chat di incontri si dilettino in sexting, foto e altre amenità virtuali, ma solo raramente decidano di incontrarsi per stabilire un contatto carnale. Insomma direi che qualcosa è profondamente mutato e non credo sia colpa del Papa. Il sesso è una forma di comunicazione e di relazione e queste due categorie si sono trasferite in buona parte in rete, saturando gli spazi e restringendo di molto il campo destinato a forme di comunicazione e relazione fisica. La sopraggiunta pandemia non ha agevolato l’incontro e l’instaurazione di rapporti con altri corpi potenzialmente contagiosi, mentre le prolungate coabitazioni hanno generato tensioni anche all’interno delle coppie consolidate. 

Quanto alla specie, la sopravvivenza è messa seriamente in discussione dal suo stesso impatto ambientale e dal cambiamento climatico in atto. Quindi la “felicità” ha una correlazione sempre meno diretta con la riproduzione e sempre più con benessere e longevità. Inoltre, per giovani senza una posizione professionale stabile la riproduzione rappresenta più un rischio che un’esigenza. Spesso si trovano distanti da eventuali partner migliaia di chilometri in città dove non hanno amicizie e dove, magari, lavorano fino a tardi, così, le occasioni di incontro e “comunicazione” sono poche, mentre i social parlano la rassicurante lingua di casa e illudono con l’apparente prossimità di “amici” in realtà assai distanti.

 Ulteriore deterrente a una soddisfacente vita sessuale è rappresentato dalla sovrabbondanza di immagini di corpi e della pornografia che con la rete ha raggiunto facilmente anche i più giovani e indifesi, che hanno dovuto costruirsi una mappa non attraverso il corpo proprio e dei coetanei ma attraverso immagini a volte traumatizzanti e comunque esterne che offrono una rappresentazione forzata quando non violenta. Individualismo e isolamento aiutati dal web ci stanno portando ad atomizzare tutte le esperienze inclusa quella sessuale. Tuttavia, come opportunamente ricorda Emanuele Coccia nel suo “La filosofia della casa”: “Gli organi sessuali sono forse tra i più strani tra quelli di cui siamo dotati. Sono difatti gli unici, che presuppongono per il loro uso la presenza e l’azione di un altro soggetto”. Quindi è necessario e naturale ed evolutivo congiungersi con altri.

 Fin qui direi che siamo tutti d’accordo. Alcuni, come Vallauri, ritengono che un solo partner sia frustrante e solo nella varietà e nel ricambio si trovi la felicità e, sicuramente, sarà così nella loro esperienza. Tuttavia non ne farei una verità universale, quanto piuttosto una concezione, tipicamente maschile, forse mutuata dai conigli, magari attraverso un antenato comune. Costruire un’intimità gioiosa e curiosa e una sessualità appagante è un percorso non di rado lungo e impegnativo e la coppia è, fin dalle prime civiltà, il luogo più idoneo per percorrerlo. Con la doverosa attenzione per ogni assunto che parta dal rispetto delle inclinazioni e scelte libere degli individui, rifuggirei da facili ricette di felicità. Personalmente assegno all’esclusività sessuale un ruolo importante in una relazione amorosa, ma sono sicura, che vi siano coppie aperte, desiderose di varietà e completamente felici, che scelgono consapevolmente e in perfetta armonia di amarsi senza precludersi altre esperienze, magari solo fisiche. Finché non si fa del male a nessuno ogni scelta è legittima. Credo però non vi sia possibile felicità dove qualcuno soffre.

Materia complicata però le relazioni umane, e molto sfuggente la felicità. Quindi eviterò di dire cosa sia per me e mi limiterò a tornare sul concetto iniziale. In una civiltà nella quale la specie è minacciata solo da se stessa, la riproduzione non è un fattore che garantisca alcunché. Inoltre il desiderio atavico e naturale è inibito da mille timori causati non solo da questioni sanitarie, ma anche da un immaginario distorto dal porno, e dall’ostentazione del corpo, magari ritoccato. E’ molto facile generare ansia e timore di non essere adeguati o adeguatamente performanti. Quando mi dissero ai bambini di prima media i più grandi mostravano video porno per scioccarli, una domenica, finito il pranzo, feci una lezione di sessualità alla mia piccola undicenne. La poverina non ne aveva neanche tanta voglia, ma sono contenta di averle parlato con naturalezza di certe cose e di aver mantenuto, anche in seguito, apertura rispetto a certi temi, senza tuttavia chiedere mai niente.

Una cosa stragiusta la dice Vallari, bisogna parlarne. Questo è il vero tabù. La parola libera molto più del porno, la parola evoca immaginari personali, suscita il desiderio, da nome all’innominabile e spazio alla reciproca conoscenza. Il vero fine ultimo delle relazioni umane, e anche della sessualità.

 Alla fine, la crisi del sesso, è solo l’ennesimo esempio di una crisi di relazione e comunicazione molto più vasta e ciò non può non allarmarci. L’uomo è un animale sociale e comunicativo, l’individualismo lo rende infelice sicuramente più della monogamia. Avvicinarsi ad un'altra persona, guardarla, toccarla e scoprirla, tentare umilmente e teneramente di conoscerla. Credo che non basti non essere bigotti, credo si debba superare tante convinzioni e acquisire la serena consapevolezza che l’assoluta conoscenza di un altro individuo non la si raggiunge mai. Non si smette mai di scoprirsi, forse la “varietà” che può rendere felici è proprio questa.

venerdì 4 settembre 2020

Famiglia

 

 

In questi giorni si chiude un cerchio importante per me e la parola famiglia scolora in un volume della mia storia che ha un suo posto nella parte alta della libreria, quella che si raggiunge con la scala. La costola sfilacciata, alcuni fogli staccati, un fiore, o meglio un ago di pino tra le pagine ingiallite.

Quando un cerchio si chiude, si generano, come per magia, due spazi distinti dove prima non vi era soluzione di continuità. L’unità sacra e inviolabile si è incrinata e la crepa ha fatto la sua strada fino al punto dal quale era originata. Chiudere il cerchio consente di lasciare fuori chi e cosa quell’unità ha distrutto. Al tempo stesso offre la possibilità di preservare all’interno ciò che quell’unità ha nutrito e che di essa si è nutrito.

Se mi chiedo cosa sia la famiglia e se la sua sostanza resti dentro o fuori dal cerchio, devo ammettere che ciò che resta sono memorie e nostalgia di un’unità perduta, un sentire magari anche comune, ma sicuramente non condiviso.

La familia latina era originariamente costituita dagli schiavi della casa, una sorta di pertinenza. Anche oggi il concetto di famiglia resta per lo più legato alla coabitazione, prevista peraltro dal codice civile, che struttura l’istituzione per gradi e ruoli con precisi diritti e doveri. Un’obbligazione giuridica prima ancora di una volontà spontanea. Chi mi conosce sa che, a differenza di coloro che considerano il matrimonio civile un rito squallido, ho sempre apprezzato la lettura degli articoli del codice civile che sanciscono diritti e doveri dei coniugi: fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell'interesse della famiglia e coabitazione. Questo perché non ho mai pensato ai legami amorosi come a una vicenda esclusivamente romantica e passionale. Se è indubbio che sia possibile essere fedeli, collaborare e coabitare senza amarsi è, a mio avviso, improprio, definire “amore” un legame che non si fondi su tali basi.

Oggi, nella cosiddetta società liquida, deresponsabilizzazione e individualismo sono la nuova religione fondamentalista. La conseguenza di ciò è che la famiglia arriva fin dove arriva “la buona sorte”, difficilmente oltre. Qualche sera fa ho ascoltato con interesse e piacere Sandro Veronesi durante la manifestazione “la città dei lettori”, in quell’occasione lo scrittore toscano, ha affermato che la famiglia non esiste più, ha cessato di esistere quando ha cessato di essere indissolubile.

In parte sono d’accordo con lui. Sicuramente la famiglia non è più la stessa e quando gli psicologi ci ripropongono modelli genitoriali o affettivi fondati su categorie come “ruolo”, “autorità” ed “esempio”, provo la sgradevole sensazione che si siano trasferiti tutti su un altro pianeta dimenticandomi quaggiù alle prese coi social e a fronteggiare armata di freccette una trasformazione epocale della società assimilabile a una bomba atomica.

La famiglia non è più indissolubile e quando il cerchio si chiude viene lasciata fuori, lontana nello spazio e nel tempo. Al suo posto, ovvero accanto ad alcuni eroici esempi di famiglie in via d’estinzione come orsi e koala e di singoli affezionati all’anacronistica indissolubilità, ci sono una molteplicità di “esperienze solidali e pseudo-familiari” alle quali i soggetti partecipano sulla base di un’economia delle scelte dettata dal benessere reciproco.

Forse in una società longeva come la presente, la competizione naturale non è più volta a riprodursi ma a garantirsi le migliori condizioni di vita il più a lungo possibile. Il comportamento più adattivo è ovviamente quello che supera l’individualismo in una solidarietà che implica cura e sostegno di un gruppo, di una comunità, di una pseudo-famiglia in un’economia delle scelte dettata da affetto e attenzioni. Non chiamiamoli “congiunti”, se possibile, spostiamo l’attenzione dal vincolo all’impegno. La famiglia o le pseudo-famiglie necessitano adulti responsabili che si assumano oneri e scelte nell’interesse di una persona o un gruppo di persone. Corresponsabili, complici, solidali. Soggetti che assumono spontaneamente un compito, che non è un dovere scritto e che non può limitarsi alla ricerca del benessere individuale. Più che di affetti stabili, forse si dovrebbe parlare di affetti responsabili. Il concetto di “pertinenza” implicito nel termine latino si trasferisce su un piano diverso per necessità all’interno di un’epoca nella quale la domus ha perso il ruolo centrale e aggregante che aveva in passato, le unioni sono spesso caratterizzate da distanze anche transnazionali e al posto della soffitta abbiamo il cloud. Forse si potrebbe pensare a un concetto di “coinvolgimento”, che ha anche una connotazione più orizzontale e meno gerarchica.

Ciononostante la vetusta indissolubilità, se non supportata dal diritto, può continuare ad essere una categoria dello spirito. Il fatto che la legge mi consenta un comportamento non implica ovviamente che me lo imponga. Perché mai, sapendo quanto tutto sia provvisorio e relativo, dovremmo darci “per sempre” a qualcuno? Secondo quale logica dovremmo ritenere di poter sfidare la cattiva sorte o anche solo il tempo?

Per un atto di fede. Uno slancio, un salto nel buio, una scommessa, una scelta. La fede nuziale è insieme simbolo dell’unione e cerchio chiuso che segna un limite e un confine (se non una pertinenza). Quello che sta dentro il cerchio è uno spazio dinamico che si espande o assottiglia seguendo la storia della singola famiglia e può diventare un cortile aperto e accogliente o uno scantinato buio di cui si è persa la chiave.

Foto mia

Non so se davvero la Famiglia non esista più. Eppure esistono la fedeltà, l’assistenza, la collaborazione. Soprattutto esiste la possibilità di scegliere. Una gran bella responsabilità, da indossare ogni giorno al posto di un cerchio vuoto. Se scegliere ogni giorno può apparire un’estrema espressione di libertà e consapevolezza, è evidentemente anche una immane fragilità e le vittime, per lo più indifese, di continue scelte libere e liberatorie sono i bambini e i giovani che si trovano a crescere in un mondo nel quale gli “adulti” si ostinano a non voler invecchiare o cedere loro alcuno spazio né professionale né ludico, dopo aver sottratto loro quello familiare. Negli ultimi mesi abbiamo anche deciso che la scuola è meno necessaria di una pizzeria o di una discoteca e la vediamo solo come uno spazio aperto al contagio.

Che una società senza famiglia sia meno unita e solidale e non abbia a cuore il futuro, dei più piccoli e del pianeta, mi pare evidente.

Magari dopo la familia latina, dopo la famiglia indissolubile e dopo quella liquida i nostri ragazzi ci sorprenderanno con una scelta rivoluzionaria: un atto di fede e di creatività che ricomponga l’unità perduta e generi una famiglia nuova capace di essere un valore positivo aperto, paritario e moderno, ma durevole.

lunedì 15 giugno 2020

Distanziamento


In tanti hanno scritto dei diari durante la quarantena. Descrizioni a volte anche minuziose di un quotidiano ristretto e autoreferenziale, alle quali facevo fatica a interessarmi anche quando scritte da abili penne.
Adesso che la quarantena è superata e sostituita da prudenza e distanza. Adesso mi viene voglia di interrogarmi e annotare questo confronto con un mondo immutato oppure del tutto inedito.
Per qualche strano motivo, forse chiaro a psicologi e terapeuti ma a me oscuro, di fronte alla realtà fenomenica e altra mi sento spaesata e, a tratti, affaticata. Infatti, se la cifra del mio vivere in quarantena era quella dell’impegno. Un voto monastico a rispettare orari, riti, prestazioni professionali e cure familiari e domestiche; ecco, la cifra di questa nuova fase di riabilitazione alla vita è quella di una fatica interiore e anche fisica nel recupero dello spazio e della socialità. Questo lungo isolamento è stato connotato da una miscela tra una profonda introspezione e un’attenta osservazione dell’umanità e della realtà, ovviamente nella loro rappresentazione veicolata dai mezzi di comunicazione e informazione. Uno studio antropologico e sociale del quale mi trovavo a essere oggetto e soggetto insieme.
Tutto è cambiato; eppure, non per tutti allo stesso modo.
Per molti questa emergenza ha significato malattia e lutto; per alcune categorie, lavoro in condizioni di rischio ed emergenza. Su tanti si sono abbattute le spietate conseguenze della crisi economica. Per molti si è trattato di un cambio di vita, di abitudini e di quotidiano. Una reclusione forzata tra le quattro mura domestiche in un palinsesto di attività alcune smart e altre con la scopa o il mestolo in mano. C’è stata una riscoperta del nido, per chi ce l’ha, e della famiglia. Una famiglia a tratti anni cinquanta, con angeli del focolare intenti a sfornare pane e torte di mele, un po’ tribale, in una strenua difesa della capanna, a tratti contaminata da un esterno che, trovando la porta sbarrata, si è introdotto in casa dallo schermo.
Dalle nostre celle di clausura abbiamo incontrato la professoressa impegnata nella DAD con il marito che transita alle sue spalle intento a caricare la moka, il collega spettinato, con la felpa, che partecipa alla riunione seduto sul letto, la voce del bimbo che chiede come risolvere il problema di matematica, il sorriso di un amico felice di vederti, pur da lontano. Il lavoro si è impossessato del salotto, occupando un tavolo che un tempo serviva per ospitare gli amici a cena. Il lavoro, che un tempo era davvero remoto, anzi, quasi recondito, si è avvicinato e scoperto, gettando una luce su una porzione della nostra vita per lo più ignota a chi ci vive accanto. Gli insegnanti hanno visto camerette disordinate e tappezzate di foto e oggetti; gli studenti hanno fatto esperienza dei professori incorniciati da affetti e suppellettili, probabilmente più umani e, spesso, teneri ai loro occhi, nel tentativo di familiarizzare con strumenti mai sperimentati. Genitori sempre altrove si sono ritrovati sotto lo stesso tetto dei figli per un tempo lunghissimo.
Nessuno avrebbe probabilmente scelto anche solo una delle manifestazioni di questo esilio dal mondo, eppure, questa esperienza ci ha regalato consapevolezze mai intuite prima.
Di contro, il mondo si è ristretto. Hanno fatto il loro ritorno i confini e sono cresciute le distanze da interporre tra le persone. Come vittime di un’illusione ottica siamo inizialmente spariti, puntini infinitesimali perduti in una natura incommensurabile, ridotti a numero da statistica. Nel microscopio della nostra vita in cattività quel puntino si è ingigantito a dismisura, mentre il mondo si andava restringendo sempre più. E mentre fuori si riaffacciavano i confini ci siamo resi conto di non esperire più il confine del sé, confuso in un habitat sempre uguale o esercitato in un esterno ove lo spazio si espande per decreto o ordinanza, quando non per paura.
Stiamo gradualmente riacquistando spazio e incontri pur con prudenza e limitazioni, più o meno elastiche; tuttavia, questo percorso di avvicinamento è pensato per farci tornare a consumare, ma non veramente ad incontrarci ed essere vicini.
Quello che è successo è immane e chi ne nega la gravità offende la memoria dei defunti e dei malati e usa strumentalmente il malcontento per trarne vantaggio personale, tuttavia, non è accettabile trascurare le conseguenze umane e sociali oltre che sanitarie, economiche ed educative di questa epidemia.
L’essere umano acquisisce abitudini con estrema facilità e l’abitudine alla distanza e all’isolamento potrebbe lasciare tracce indelebili e difficili da curare in una civiltà già estremamente individualista e prigioniera della realtà virtuale.
Non sentivo il bisogno dei diari della quarantena, ma vorrei che ora ci fermassimo a pensare a come vogliamo accostarci all’altro nella fase di riabilitazione che abbiamo davanti.
Mi piacerebbe che questo momento fosse raccontato perché l’introspezione senza occasioni di confronto resta una vuoto mulinello. Solo nell’incontro si può conoscere anche se stessi e credo saremo tutti curiosi di sapere come siamo cambiati nel passaggio che abbiamo conosciuto. Cosa guida l’avvicinamento all’altro in questo strano tempo? Curiosità, affinità, desiderio, timore, forse, cura. Si vede tanta rabbia in giro. Quando viene meno il prossimo, fanno la loro comparsa i nemici e le contrapposizioni. Ecco, credo sia la “fase” di cui dobbiamo preoccuparci tutti.

sabato 28 marzo 2020

Deserto


Come molti cittadini esco solo per fare la spesa e gettare l’immondizia dal momento che posso lavorare da casa. MI mancano molto le mie passeggiate in collina, il paesaggio, perfino il quartiere con i suoi rumori. Tuttavia quando esco il mio solo desiderio è tornare a casa, perché soffro lo spazio urbano disumanato. Tollero con grande fatica le immagini dal drone  della mia città deserta. Una città non sono i suoi monumenti, per quanto unici ed eterni, non è il Grand Canyon o il Sahara o la savana. Una città è uno spazio antropico ed esiste solo come tale, non può e non deve essere un paesaggio da assaporare, una prateria da immaginare. E’ città solo nella misura in cui è vissuta. 

Ho sempre amato questo quadro e ne ho un poster in camera. “La città ideale” rappresenta uno spazio apparentemente inabitato anche se quella porta aperta allude ad una possibilità di incontro e accoglienza che oggi è negata. Per questo l’immagine di Papa Francesco ieri sera in preghiera nella piazza desolata ha conferito all’evento un impatto emotivo intenso. 


Il Pontefice ha scelto deliberatamente di abitare quello spazio desolato, evocando con la sua solitaria preghiera la ricerca di interiorità e raccoglimento nel deserto della quarantena di Gesù, ma anche riportando l’uomo nello spazio che gli appartiene ed esiste solo nel riconoscimento reciproco. I passi incerti di Francesco sul sagrato mi sono apparsi come una tenera carezza alla solitudine dolente del vuoto urbano.


Siamo ancora cittadini senza abitare la città? E La città è ancora tale nello scorrere ininterrotto del selciato?

Le nuove tecnologie ci asserviscono da anni, ma, in questa circostanza, ci hanno consentito di lavorare, seguire una lezione scolastica, essere informati, vedere amici e parenti segregati altrove, ascoltare concerti improvvisati. Tuttavia la polis virtuale non può che costituire un pallido surrogato dell’ambiente antropizzato e tutti siamo consapevoli del fatto che una videochiamata non è un abbraccio. 


Responsabilmente restiamo a casa isolati anche dai nostri più stretti familiari e con tristezza e solidarietà leggiamo le notizie e ascoltiamo i bollettini di questa epidemia globale che lascerà dietro di sé un mondo necessariamente mutato. Soli, nelle nostre abitazioni che sembrano non avere più un legame reale con un esterno desertificato. Prego dalla mia casa ogni giorno, ma sono grata al Papa per aver riempito con la sua preghiera il freddo vuoto di una piazza senza passi e senza voci.

sabato 7 marzo 2020

Contagio

Una storia per raccontare questi giorni o forse solo per farsi compagnia



Sara percorse gli ultimi trenta metri del marciapiede accelerando il passo. All’angolo con via Frusa incrociò un uomo e le loro spalle si urtarono. Si rese conto di non sapere veramente se fosse più infastidita per quel contatto o per aver aumentato il passo come a voler raggiungere il portone prima possibile e ritrovarsi al sicuro a casa propria, lontana da umani potenzialmente contagiosi. Provò stizza e vergogna. Si ritrovò a salire le scale stancamente senza nessuna voglia di chiudersi nel guscio.

Aprendo la porta di casa le giunse la voce di Irene. Dal tono le fu chiaro che la figlia stava probabilmente registrando un vocale per qualche amica o gruppo whattsapp. Quando si rivolgeva a lei aveva due tipi di sonorità possibili: il monotòno annoiato e sfuggente di quando rispondeva alle domande della madre o quello seccato e distante che riservava alle sue osservazioni. Quando invece parlava con le amiche o registrava a loro beneficio modulava toni ed espressioni, mutava registro, conferiva intenzione, interpretava come un’attrice consumata l’intero spettro dei possibili stati d’animo. I suoi vocali erano una raccolta caleidoscopica di emoticon sonore.

“… deve dimostrare a tutti che non le importa, dai raga è evidente. Io la ignorerei…”

“Ciao Irene!” disse Sara guardandola dalla porta della camera. La ragazza era distesa sul letto, la testa poggiata sullo zaino e con la mano teneva il cellulare davanti a sé continuando a parlare senza neanche voltarsi”.

Sconsolatamente si tolse le scarpe ed entrò in bagno a lavarsi le mani. Si tolse la camicetta e la gonna grigia che aveva indossato in ufficio e afferrò la tuta da casa. Ogni sera nel fare quel gesto le sembrava di andare eroicamente incontro al proprio destino di donna invisibile, abbandonava gli abiti curati ed eleganti per entrare nel ruolo di casalinga disperata previsto dal palinsesto serale.

Si buttò sul divano e riprese il libro di Eshkol Nevo dove l’aveva lasciato la sera precedente. Si sarebbe concessa uno o due capitoli prima di mettersi ai fornelli.

“Ciao fra!” disse Irene entrando in salotto dopo circa mezz’ora. “Cosa c’è per cena?” “Ciao tesoro. Minestrone, frittata e insalata.”

“ah”

“Hai studiato oggi?”

“No.” Rispose evaporando.

“Irene, non sottovalutare la situazione. Non siete in vacanza. Vi tengono a casa per limitare il contagio, ma non è una vacanza e non puoi permetterti di perdere scuola ed esercizio”.

La porta della camera di Irene si era già chiusa alle sue spalle e poco dopo sentì la musica impossessarsi della stanza e consentire alla ragazza di recuperare materialità nel canto e nel movimento.

La musica cessò solo quando Sara la chiamò per la terza volta per la cena. Si trovarono di fronte al tavolo di marmo della cucina. Nessuna delle due in fondo aveva desiderio di parlare. O meglio, nessuna delle due aveva voglia di essere ancora delusa.

“Ci guardiamo un film insieme stasera?”

“Probabilmente esco”

“Anche stasera? Guarda io lo sai come la penso su questo coprifuoco e sulla chiusura delle scuole. Però nelle cose ci vuole equilibrio e responsabilità. Lo Stato ha dato disposizioni e chiede la collaborazione di tutti per limitare il contagio. Non dico di chiuderti in casa, ma magari puoi evitare di stare sempre in giro e per locali…”.

Irene, senza mai smettere di fissare il telefono e digitare convulsamente, si alzò di scatto da tavola e senza degnare la madre di una risposta o anche di uno sguardo uscì e si chiuse nuovamente la porta alle spalle.

Sara sentì una fiacchezza infinita che la schiacciava, sentì il pianto arrivare, in pochi secondi le sua guance furono attraversate da silenziosi lacrimoni. Afferrò lo scottex, ne strappò un pezzo e si asciugò gli  occhi e si soffiò il naso. Buttò nel sacchetto il pezzo di carta e si diresse disciplinatamente in bagno per lavarsi le mani. Tutta questa attenzione alle secrezioni del corpo le pareva una patologia ossessiva e paranoica, l’individualismo era stato soppiantato dall’atomizzazione. Lo squillo del telefono la distolse dalle sue riflessioni. Era Fabiola: “Ciao Sara. Come stai? Allora hai visto il teatro è chiuso, niente spettacolo domani sera”.

“Non me ne parlare! Avevo anche i biglietti per “la Sonnambula”. Anche la presentazione del libro di Saverio è stata annullata. Insomma, capisco le motivazioni, ma questa sospensione della vita la trovo davvero inquietante”.

“Eh si. Io stasera vado al cinema, me ne infischio. Tutto il giorno in agenzia davanti al pc. Clienti tre. Se continua così il Palmieri mi dice di restarmene a casa e non mi rinnova il contratto. E’ meglio che esca e non ci pensi”.

“Io non ce la faccio. Le immagini dei cinema con le sedie vuote tra le persone per tenere lo spazio… non so, mi fa tristezza. Preferisco guardarmi qualcosa su Netflix. Domani dovrei pranzare con Vieri. Mi sa che resto in casa. Comunque questa situazione è irragionevole e disumana. Oggi mentre camminavo mi sembrava di essere un soldato di fanteria che schivava gli altri passanti come fossero baionette. Ho paura di come stiamo diventando”.

“Dai non privarti di un’uscita con Vieri, sei sempre così contenta di vederlo! Io dovevo vedere Federico stasera ed ho sfissato, ma il virus è una scusa. Mi sono accorta che non avevo voglia. Irene che fa?”

“Lasciamo perdere. Avvinghiata in un costante amplesso con lo smartphone. Adesso poi il virtuale è diventato la realtà sostitutiva ufficiale e approvata dalle istituzioni… hai visto anche le scuole faranno le lezioni online…”

“Mala  tempora, cara mia. Son d’accordo con te. Se cambi idea e hai voglia di un film, sedute a un metro… avvisami, ti passo a prendere, ti faccio sedere dietro...”. Fabiola rise e si salutarono.

Sara riprese a riordinare la cucina. Mentre passava il piano e le ante col detergente urtò il barattolo porta caffè di ceramica. L’avevano acquistato in Puglia. Ricordava quel giorno con limpidezza come nemmeno la giornata appena trascorsa in ufficio. Le pareva ancora di vedere la luce chiara e totale di quell’agosto. Stavano cercando un posto per mangiare ed erano già quasi le tre. Erano sfiniti e Irene mugolava sul seggiolino dietro. Giorgio ricordava una trattoria lì in quel paese e giravano da dieci minuti con l’auto nel tentativo di ritrovarla. Ad un certo punto si trovarono davanti un banco in strada che vendeva ceramiche. Sara aveva voluto fermarsi e avevano acquistato tre barattoli, sale, zucchero e caffè. Erano di ceramiche bianca con disegni color mattone e verde.

“Che è successo?” Chiese Irene entrando nella cucina. “Nooo! Che peccato!” si chinò a raccogliere i pezzi scrutando con la coda dell’occhio il volto della madre, come una bestia interiore la pena si intrufolava fin sotto la pelle e si protendeva verso Sara per ricongiungersi alla sua. Sara era sgomenta. Prese la scopa e la cassetta e raccolse i resti anche di quella memoria. Non provava niente. In effetti stava pensando che forse avrebbe dovuto ricomprarli comunque tutti e tre e cambiare barattoli, oltretutto nella nuova cucina non stavano neanche tanto bene.

Irene ripensò a quel giorno in Puglia. Ricordava la fame e la stanchezza. Ricordava come aveva iniziato a piangere, quando la madre si era fermata dal venditore di ceramiche. Ricordava di aver detestato anche il padre che gongolava felice quando la sua “ragazza” adocchiava qualcosa, era sempre pronto ad accontentare i desideri di Sara, anche i suoi capricci. Irene ricordava di essere stata perfino gelosa qualche volta. Adesso non riusciva ad immaginare la gioia pazza e insensata che avrebbe provato nel rivedere quello sguardo del padre, nel vederlo ancora adorare e viziare la sua ragazza. Anche con la nuova moglie gli piaceva fare il galante e la viziava in ogni modo, eppure Irene sapeva di non avergli mai più rivisto quello sguardo.

Sara si era buttata di nuovo sul divano col suo romanzo. La testa su un bracciolo, i piedi sopra l’altro. Scalza, come sempre. Quando Irene le passò accanto pronta per uscire, le sorrise e la ragazza buttò un bacio e proseguì: “non  torno più tardi dell’una, ciaooo”.

“Ciao tesoro! Mi raccomando fai attenzione e usalo quel gel!”

Si alzò dal divano appena Irene fu sul pianerottolo e si avvicinò alla finestra per curiosare. C’era un solo ragazzo ad aspettare Irene. Lo vide scostare delicatamente i capelli di Irene e baciarla.  Rimase ancora alcuni secondi per fissare nella memoria la tenerezza e la cura che aveva scoperto, poi si ritrasse.

Si riempì la vasca di acqua calda. Buttò la tuta nel cesto della biancheria e si immerse, chiudendo gli occhi.

Si domandava chi fosse quel giovane del quale stranamente non aveva ancora saputo niente. Ripensò che dieci giorni prima Irene le scriveva messaggi di terrore sul virus e le chiedeva di comprare la mascherine e ora se ne andava in giro tranquilla a baciare giovani sconosciuti. Pensò che quando dell’allarme e della crisi si erano impossessati gli adulti, per i ragazzi era diventata solo l’ultima convenzione e i provvedimenti governativi avevano solo accresciuto la distanza. Quale miglior modo di trasgredire se non il bacio proibito?

Indossò l’accappatoio e si diresse in camera dove trovò nuovi messaggi di Vieri sul telefono dimenticato sul comodino. Lesse divertita e rispose. Vieri collaborava con il suo studio e trascorreva metà del tempo in Belgio e metà a Firenze. Sara amava la sua compagnia e a volte ripensava divertita ai suoi messaggi e alle sue parole per giorni interi. Rimase sul letto a scrivere ridendo, poi si salutarono, d’accordo che il giorno seguente avrebbero fatto una passeggiata portandosi un panino e avrebbero trascorso qualche ora insieme evitando locali. Mise su SADE  e pensò al bacio dei ragazzi. Your love is King, canticchiva, ballando così, scalza, con la tuta da casa, una gioiosa e scanzonata voglia di trasgredire.

domenica 11 agosto 2019

Stelle


In una giornata torrida come quella di oggi una gita fuori porta in cerca di frescura e di respiro può alleviare la pesantezza del clima urbano ma anche dell’asfittico spazio domestico oscurato e senza voce. Non ero mai stata a Firenzuola. La nostra meta era il passo della Futa e a Firenzuola abbiamo dedicato una breve sosta. Prima di andare ho interrogato Wikipedia ed ho scoperto che Firenzuola è il comune più a nord della città metropolitana di Firenze e che il centro abitato venne edificato al tempo del Granducato e deve il suo nome al capoluogo toscano. Ho anche appreso che a Firenzuola si trova un museo della pietra serena, che però abbiamo trovato chiuso, ma, soprattutto, ho trovato una notizia veramente interessante: in questa zona, il 10 agosto 1968 è caduto un meteorite.

Personalmente trovo la notizia molto interessante e rivelatoria. Non ho cognizione di frequenti localizzazioni di meteoriti e mi è parsa cosa piuttosto singolare; ma ammetto di non interessarmi abitualmente di corpi celesti. L’associazione tra 10 agosto e la parola meteorite mi si è imposta con la sua verità scientifica al di là della formula stantìa e abusata di “notte delle stelle cadenti” con il loro carico greve di desideri espressi che sono spesso miseri bisognini. Mentre scrivo mi accorgo che nella parola desiderio ci sono già le stelle e che il moto che ci spinge ad alzare lo sguardo è inverso e ci viene suscitato dall’alto. Il desiderio è un’aspirazione al sublime, non una fame o un bisogno da soddisfare.

Ora che il firmamento mi appare in tutto il suo siderale e distante splendore provo l’impellente bisogno di tornare, anzi di precipitare sulla terra a cavallo del meteorite al quale voglio manifestare tutta la mia simpatia. Ritengo di avere titolo per questa presa di posizione in difesa dell’evento calamitoso che nessuna compagnia assicurativa si sognerebbe di coprire, perché proprio il 10 di agosto ho avuto il mio personale e specifico meteorite e, anche se mi ha causato non pochi danni, ne conservo un ottimo ricordo. E poi, diciamo la verità, le stelle, così distanti, che se ne brillano di luce propria lassù, inaccesibili e solitarie, meccanica celeste del nostro destino di marionette per gli appassionati di oroscopi, possono riempirci il cuore di stupore e desiderio, ma ci lasciano lì a sperare in soluzioni dall’alto sottraendoci al nostro diritto e dovere di agire e di scegliere, ogni giorno, il bene o il male. Privandoci del rischio, dell'alea inseparabile dalle scelte d'amore.

Cimitero germanico della Futa - Foto mia
Il libero arbitrio è il tema centrale della storia del Grande Inquisitore contenuta ne “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij e oggetto della rappresentazione teatrale itinerante Pro e Contra alla quale ho assistito presso il suggestivo cimitero germanico del Passo della Futa.

 Lo spettacolo contrappone il nichilismo e l’indifferenza di una vita senza Dio al desiderio di vita e di senso che si realizza ogni giorno nel ricordo, nell’azione, nello sguardo d’amore. 

Un desiderare di farsi stelle, il de-siderare se stessi per illuminare intorno, per dare la luce e la vita a coloro che amiamo, senza bruciarsi in onanistiche combustioni che lasciano una scia di gas ma non regalano una sola fiammella.

Sul cratere lasciato dal meteorite nella nostra terra possiamo mettere una croce e una data e serbare un dolce ricordo, come saggiamente ci insegna il cimitero. Alle stelle possiamo guardare con emozione e stupore, ma senza chiudere gli occhi ed esprimere desideri per i quali non avremmo il coraggio di combattere in prima persona.

sabato 29 giugno 2019

Estate

Foto mia
Al mare giugno è il mese dei bambini; si sa. Appena chiuse le scuole si riversano sulle spiagge. Un mercoledì di fine giugno, passeggiando sulla battigia questo banale luogo comune acquista una sostanza fatti di corpicini che si spostano incerti e traballanti con secchielli, braccioli e palette o che ciondolano intorno all’ombrellone vagamente annoiati, occhieggiando i vicini. Una volta fuori dal mondo perfettamente organizzato e tecnologico nel quale hanno un ruolo chiaro e ben definito e del quale conoscono perfettamente la coreografia, i bimbi mostrano qualche incertezza di fronte alla distesa d’acqua senza fine che si trovano davanti e a quel tempo non scandito e vincolato. Come se non sapessero cosa farsene. I veri protagonisti sono i nonni. Certo; perché la maggior parte di questi bimbi “in ferie” è affidata alle cure amorevoli dei nonni.

Un bambino aggrappato alla schiena della nonna  spenzola nell’acqua come un’esca mentre l’agile e corpulenta signora con i capelli corti e scuri di tinta si muove nell'acqua provando a dare lezioni di nuoto: “Ecco, qui non si tocca. Muovi le gambe, ma tieniti! Quando è più bassa te lo dico e provi staccarti”.

Come incantato il nipotino le fissa la schiena, tenendosi forte, senza fare il minimo movimento. “Ma sei tutta sudata!” “Macché sudata! Sono bagnata!”.

Mi allontano nuotando dalla scena, divertita e al tempo stesso stupita di come la realtà materica possa sfuggire a queste creature per le quali può essere misteriosa come per me il Bosone di Higgs.

E così camminando mi scopro a guardare quei corpi maturi, come una sorta di ultimo baluardo della realtà fisica e della forza dei sentimenti più profondi. Disteso sul bagnasciuga, immobile come un salodato di guardia, un nonno si lascia ricoprire di sabbia bagnata versata da un secchiello minuscolo in uno stillicidio che potrebbe durare ore. Imperturbabile col cappellino da sole, offre così il proprio corpo in sacrificio alla piccola nipotina addetta alla colata.

Mano nella mano una coppia in età decisamente avanzata mi cammina davanti, il passo lento e attento, le mani intrecciate, una meta da raggiungere.

E quante signore attempate, di buon passo, con abbastanza primavere da sapere che ogni estate potrebbe essere l’ultima, esporre così il corpo nudo alla brezza marina, sentire la sabbia sotto i piedi, il rumore della risacca, guardare il bagnasciuga che trascolora e riluce ad ogni onda.

Ho prenotato una camera con la terrazza che affaccia sul mare. Solo due notti per noi due, solo tre giorni insieme alla mia piccola donna che alle volte mi sembra un po’ marziana, quando mi parla di tatuaggi e musica trap, ancora di più quando inaspettatamente mi legge a voce alta la città invisibile di Calvino che ha il mio nome. E io le leggo Tolstoi e le cito il Principe Nicola Andrèievic Bolkonski che dice alla figlia “La scioccheria ti uscirà dal capo” e ridiamo, ridiamo insieme e insieme ridiamo dello chef nervosetto che al ristorante mi sbriciola pane sulle pietanze e si offende se non le mangio, ridiamo facendoci una foto.

La comunione con un altro individuo non può mai essere assoluta e scontata. Ci avviciniamo per vie misteriose e ci sentiamo lontani, a volte irrimediabilmente. Come l’onda che lambisce e illumina un lembo di spiaggia per poi ritrarsi lasciandolo più scuro, così la comunione viene e va. Ritorna coi gesti d’amore, con le scelte quotidiane; immobili sepolti sotto la sabbia, al largo con una creatura che specchiandosi nelle gocce scintillanti sulla tua schiena imparerà a nuotare, tenedosi per mano, sempre più stretti quando il passo si fa più incerto.

Estate. Vento sulla pelle, sabbia sotto i piedi. Guardarsi allo specchio con affettuosa indulgenza e assaporare i frutti succosi e maturi della stagione. Avere la fortuna di amare e saperlo, mentre guardiamo dormire chi si ama, con il cuore che sembra scoppiare. Estate è pienezza di vita e verità sotto il sole.

Sesso